Racconti di folletti | Cùginet il folletto innamorato

Il Cùginet appartiene alla categoria dei cosiddetti Omini del sonno. Si tratta di quei folletti che di notte giravano per le case degli uomini, con l’intento di far addormentare i bambini.
Quando un bambino stentava a prendere sonno, il folletto gli gettava sul viso un pizzico di sabbia magica per costringerlo a chiudere gli occhi.
Pont Canavese è un borgo piemontese, dove ancora oggi è possibile ammirare le torri medievali Tellaria e Ferranda.
Proprio nei sotterranei della torre Tellaria viveva, fino alla metà del secolo scorso, il Cùgnet, un folletto agile e svelto, con le orecchie a punta sempre pronte a percepire il minimo rumore e un paio d’occhi vivaci, splendenti come quelli di un gatto. Durante il giorno il folletto lasciava mal volentieri la sua casa all’interno della torre, poiché preferiva trascorrere le ore a dormire e a sognare, sdraiato sul materasso di foglie secche. Le rare volte in cui decideva di andare a raccogliere qualche noce o castagna, oppure un cestino di fragole o una manciata di ciliege – a seconda della stagione – strisciava cauto nell’erba e camminava in perfetto silenzio, nascondendosi qua e là dietro i muri, in modo da non farsi vedere dagli uomini. La notte, invece, il folletto Cùgnet non esitava ad uscire. Vestito di tutto punto con un abitino nero, fermato da una cintura, e un berretto dello stesso colore dell’abito calato fin sopra gli occhi, percorreva in lungo e in largo le vie del paese spiando all’interno delle case se non ci fosse qualche bimbo che faceva i capricci pur di stare alzato.
“I bambini devono andare a letto presto!” ripeteva tra sé, mentre spiava dalle finestre accostate. “E il mio compito è per l’appunto quello di far addormentare quelle birbe che non vogliono prendere sonno.”
Detto fatto, al minimo accenno di un bimbo ancora in piedi, il Cùgnet entrava in casa e spargeva nell’aria la sabbia contenuta in un sacchetto che portava appeso alla cintola. La sabbia fatata aveva un effetto immediato: le palpebre del bambino diventavano via via più pesanti e non facevano in tempo a chiudersi, che lo stesso era già caduto nel mondo dei sogni.
Una notte il Cùgnet capitò in una stanza dove una giovane mamma vegliava il suo piccino irrequieto. Vedendo la donna seduta accanto alla culla, il folletto provò un’emozione intensa e il desiderio di essere cullato a sua volta. Allora si mostrò alla donna e le rivolse queste parole:
«Mi potresti tenere in braccio come fai col tuo bambino?»
La donna lì per lì ebbe paura, ma subito l’aspetto buffo e benevolo del minuscolo omino la tranquillizzarono, al punto che allungò le braccia verso il folletto e lo prese tra le braccia.
Accoccolato in grembo alla donna, il Cùgnet chiuse gli occhi e sperimentò la gioia che deve provare un piccolo umano quando si abbandona all’abbraccio della sua mamma. Poi, per ricompensare la buona donna, le mostrò una clessidra fissata alla cintola insieme al sacchettino per la sabbia e le promise che da quella notte non avrebbe mai più sofferto d’insonnia. Non solo. Le raccontò la sua storia e cioè che era nato dall’incantesimo di una fata, proprio con lo scopo di donare un sonno tranquillo a tutti i bambini del paese.
«Io conosco i vostri bambini ad uno ad uno» disse il folletto. «Conosco i loro capricci e la loro bontà, la felicità di ognuno e i dispiaceri inevitabili sul cammino della sua vita».
Commossa, la donna ripensò al marito che era partito e non aveva più fatto ritorno. Quindi baciò in fronte il Cùgnet e lo posò a terra, perché stava già sorgendo il sole.
«È tempo che torni alla torre» gli sussurrò sul viso. «Prima però voglio che tu sappia il mio nome, oltre a quello di mio figlio… Mi chiamo Rosetta».
Il folletto accolse il nome con un inchino, dopodiché, veloce com’era arrivato, corse a casa a dormire. Ma per quanto si rigirasse sul materasso di foglie, quel mattino e tutti i mattini che seguirono il Cùgnet non riuscì più a riposare: il pensiero di Rosetta gli occupava la mente, impedendogli di chiudere occhio.
Passarono i giorni e i mesi e il folletto si sentiva sempre più innamorato di Rosetta, sebbene non osasse neppure sperare di essere corrisposto.
«Sciocco che sono!» rimproverava se stesso. «Com’è possibile per una donna voler bene a un folletto? A meno che io non domandi alla fata di trasformarmi in un uomo, non potrò mai rivelare a Rosetta il mio amore. E se anche la fata mi accontentasse, che ne sarebbe del compito per cui sono nato? Chi si preoccuperebbe di far addormentare i bambini del paese? Ah no, davvero non c’è soluzione al mio dramma!»
Combattuto tra la passione per Rosetta e il compito che gli era stato affidato, il Cùgnet decise così di rimanere un folletto e, pur mantenendo immutato il suo sentimento d’amore, continuò per molti anni ancora a spargere la magica sabbia nelle camere dei bambini. Finché dopo parecchio tempo – Rosetta era ormai vecchia e suo figlio aveva trovato lavoro in una città in riva al mare – si accorse che qualcosa stava cambiando. In molte case era infatti comparso uno strano oggetto, una specie di scatola in cui parlavano e si muovevano uomini più piccoli di lui. Davanti alla scatola portentosa, i bambini restavano alzati fino a tardi, col consenso degli stessi genitori. Quando poi cominciavano a sbadigliare o, addirittura, si addormentavano davanti alla scatola, le mamme premevano un bottoncino, cosicché… op là! In un battibaleno la scatola si svuotava di immagini e di parole.
«Ma cos’è questo prodigio?» si domandava il Cùgnet stupefatto. «Possibile che il tempo dei folletti stia finendo e che la scatola parlante abbia ormai preso il posto della mia sabbia magica? In questo caso, se la fata è ancora disposta ad esaudire il mio desiderio…»
Il folletto della torre non aveva ancora finito di parlare, che già le sue braccia e le gambe cominciavano ad allungarsi.
Un paio di minuti ancora e… eccolo trasformato in un vecchio uomo, con gli occhi luminosi e il cuore traboccante d’amore: del folletto non c’era più traccia!
L’uomo raccolse un fiore di campo e corse – per quanto glielo permettessero le sue vecchie gambe – nella piazza dove sapeva di trovare l’amata. Rosetta, che riconobbe l’amico guardandolo negli occhi, accettò il fiore con la mano tremante. Poi arrossì, come se fosse ancora una bimba, e si sentì felice di riaverlo incontrato.
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Rosalia Mariani

La redazione